Adriano Baccilieri, Febbraio 1982
Adriano Baccilieri
Percorre un confine indecifrabile fra il presente e il tempo l’opera di Sergio Monari. E ne tenta l’improbabile congiunzione per evocazione commossa, attraverso lo schermo di superfici morbide come antichi intonaci; rosate, quasi fosse tradita – nella volontà dell’atto – una segreta emozione che si decanta in colore. Predisposto l’alveo, dolcemente l’immagine si affaccia all’attualità senza rischiare l’impatto duro con un nuovo contesto perché non è frammento estrapolato dalla storia ma onirica ‘ri-creazione’ iconografica avvolta nell’aura mitica della sua origine, calata nell’atmosfera rarefatta di un momento sospeso. Figure ‘neo-classiche’ in quanto rivisitate come temi di una ricorrente esigenza di classicità ritrovata, di riscoperto archetipo formale.
Figure fragili perciò, per essere presenze incerte del proprio esito nel mostrarsi alla soglia del quotidiano. Monari azzarda uno sguardo oltre il limite ultimo attinto dalla ragione, saggia a ritroso il suo divenire, risale all’idea polimorfa del mito, là dove il suo intento di evocazione non può che risolversi in puro desiderio. Nell’attesa, solo può offrire una effimera dimensione virtuale al vagheggiato accadere di difficili congiunzioni.
Il presente nel mito come ritorno nel tempo: nell’armonia dei contrari, il principio stesso della creazione. La natura dell’artista ritrova simbolicamente la sua investitura mitica. In quanto creatore l’artista è fulcro di opposte tensioni destinate a esaurirsi nel fare, a prendere – nell’opera – ‘altro’ corpo, diverso e separato da chi le ha prodotte. L’artista si riconosce così nella figura dell’androgino, nella compresenza di nature opposte che armonicamente si fondono. Ma la vocazione del creare si scopre contraddittoria come l’indole che la produce, inevitabilmente sospesa fra potenzialità, realizzazione e impotenza. Sergio Monari, in questi lavori, ne saggia le possibilità, evocando la mitica idea di opposizione/congiunzione attraverso il rapporto di varie coppie ma rappresenta anche, tramite quella idea, la sua natura androgina di artista. Nei lavori, la simbologia dell’opposizione/congiunzione è molteplice: presente-passato mitico; superficie-spazio; immagine-figura; disegno-rilievo; pittura-scultura; classico-attualità.
Tutto resta però su un piano di virtualità, perché l’opera di Monari solo sfiora il presente, solo si propone allo spazio senza tentarlo; oltre che a noi, appena compiuta, sfugge al suo autore. Lo rapisce persino al suo interno rappresentandolo nella figura dell’androgino dormiente; lo priva del suo rapporto d’amore con la raffigurazione dell’affetto omosessuale fra maestro e allievo. Sotto metafora, l’arte ama solo se stessa, si autoriproduce come le figure in rilievo che dipingono o soffiano immagini e altre figure; non ha bisogno di congiunzioni diverse da quella con se stessa. Anche l’arte è androgina. L’artista è stato solo strumento della sua epifania e ora non resta che muto e malinconico testimone della propria impotenza. E tale non può che mostrarsi, come fa Monari nella scultura dell’uomo dai tre volti, simbolico autoritratto d’artista. Schiavo, come tramanda la sapienza antica e il mito, della sua natura malinconica di nato sotto Saturno; impotente, frustrato e solo dopo la creazione, com’è scritto nel destino dell’artista. Sui tre volti la sorte è segnata: Chronos, Tyche, Melancholia sono le immagini che rimandano, come dice Maurizio Bonicatti, “al limite di quel perfezionamento della solitudine che si realizza solo nella morte”.