1983 Il luogo dell’ombra

Filiberto Menna, Valerio Magrelli, Gian Ruggero Manzoni, Marisa Vescovo

Numi tutelari, Roma 1983

Filiberto Menna

In quali musei abbiamo visto questi reperti di Sergio Monari? E in quale settore del sapere li collochiamo? Archeologia? Antropologia? Scienze naturali? osservando questi reperti affiorano alla superficie verità storiche rimosse, presenze che riconosciamo in qualche modo familiari e che tuttavia ci ritornano con un aspetto inconsueto, straniato e straniante. Si tratta certamente di esseri appartenenti alla specie umana, forse di nostri antenati, e tuttavia sono corpi che hanno subìto strane metamorfosi, profonde mutazioni genetiche. Sembrano reperti teratologici giunti fino a noi da epoche lontanissime e dimenticate e che ci portano notizie inquietanti di mutazioni storiche che potrebbero, comunque, ancora ripetersi. Per questo loro aspetto, al tempo stesso familiare e straniante, le sculture di Monari rientrano a buon diritto nella categoria del perturbante di cui ci ha parlato Freud, ma aggiungerei subito che queste forme, pervenute fino a noi chi sa da dove, diventano a poco a poco familiari, si trasformano in presenze dotate di uno strano potere di coinvolgimento e di rassicurazione: come se avessimo ritrovato, appunto, tracce di antenati o, meglio, i simboli di un’altra condizione, di un’altra, mitica possibilità di vita. Non per nulla l’opera di Monari è dominata dal tema della rigenerazione e del ricominciamento ed esibisce le tracce di nutrimenti primordiali, di veri e propri archetipi alimentari, come il latte, o mutazioni teratologiche ma di segno positivo, rivitalizzante, come le moltiplicazione dei simboli nutritivi. Dopo il primo impatto sotto il segno dello spaesamento e del perturbante queste sculture di Monari, luoghi di coincidenza di contrari quali la mutilazione e la rinascita (c’è sempre una metà che sfugge al carnefice) o, sul piano dei materiali impiegati, la terracotta e il marmo, assumono pertanto la fisionomia di presenze benigne, di numi tutelari da cui è possibile attingere sempre nuove energie, nuovi nutrimenti terrestri.

Il vuoto è il tuo volto Valerio Magrelli

Roma, 1983

In una sorta di cupo poemetto baluginante e alchemico, Gian Ruggero Manzoni ha raccontato la nascita di queste sei statue. Figure dimidiate che vivono del contagio e della vicinanza tra due materie estranee, cotto e marmo, i corpi di Sergio Monari si rivelano ibridi mitologici, simboli di una inquietante transizione di forme: “ennesima mutazione di un mutante […] / un dito, un pesce, una talea, un frutto”. L’immagine dell’uomo e delle membra è amputata, scomposta si ramifica, cresce come da un ceppo, “torso[…] / dove un nome agita la pinna… oh mondo!/che divide lettere e parole/braccia e gambe dalla torba: morfosi”. Sembra di intravvedere l’organismo guizzante di una creatura acquatica, e forse l’impressione non è errata. in una nota al busto intitolato C’è sempre una metà che sfugge al carnefice, Monari infatti osserva: “geometricamente parlando, la classe dei pesci è quella che si presta meglio alle infinite manipolazioni di incastro delle similitudini”. Dunque, questi animali composti, interrotti e incrociati sorti da un’inconsulta variazione genetica, parrebbero sirene, gli emblemi stessi di ogni teratologia. eppure non lo sono, non celano la loro divisione, ma la mostrano. espongono la sutura, il luogo dell’innesto e dell’applicazione della pietra, dell’osso, sopra il loro incarnato. Proprio l‘osso, anzi, è il segno che li contraddistingue, come osserva Manzoni nel suo ultimo verso: “In quel narvalo siamo entrati”.

Questo essere mirabile, il liocorno marino, annuncia una natura eccessiva e bizzarra, ed è noto che la sua lunga zanna veniva conservata nei gabinetti di curiosità. a qualcosa del genere deve aver pensato Hans Magnus Enzensberger in una sua poesia di Mausoleum: “Capricci dell’evoluzione. vedi ad esempio il narvalo. Ha due denti: / minuscolo l’uno, l’altro invece, sempre il sinistro, cresce a spirale, / cresce per metri e metri; solchi e nervature lo adornano, / attorcigliato a sinistra sempre e soltanto a sinistra. / lo scarabeo, l’unicorno, il mammut: pure chimere”. Il testo è dedicato a tyge brahe, tyche o ticone, “Fenice dell’astronomia”. Quattro secoli fa, a questo celeberrimo scienziato venne assegnato il castello di Urania (Uranieborg) e quello delle stelle (Stjaneborg), costruiti nell’isola di Hveen per osservare il cielo.

Personaggio irrequieto, tra lo studioso e il mago, che Enzensberger considera un mutante. mutante nello spirito e nel corpo, brahe “si strofina il naso, mutilato in un duello scaturito da controversie matematiche: un’artefatta protuberanza dorata”. ed ecco ancora il narvalo, l’osso, l’anastomòsi, la protesi che nasce dalla carne, un astro luccicante in mezzo al viso che sembra dire: Il vuoto è il tuo volto. Certo nelle figure di Monari il marmo non è sempre un elemento rigido, come il ginocchio delle Rovine circolari. C’è anche una vegetazione opima, il fico, pianta sacra e maledetta, la sola a dare frutti senza fiorire mai: la fontana di linfa. lo si vede nel Dono di Manzoni, e là dove La notte è fecondata. ma sarebbero innumerevoli le suggestioni offerte dalle sue sculture. meglio allora seguire fino in fondo la follia di Ticone, spiarla in quella flora esuberante e ricca a cui diede il nome, la Brahèa, un genere di palme che crescono spontaneamente nelle regioni montuose del Messico, talvolta quasi acurali, talvolta alte fino a sette metri, con stipite cilindrico e inerme. ve n’è di quattro specie tra le quali si raccomanda la Brahèa dulcis, diffusa in Italia dove prospera liberamente. oltremodo vistosa, ha infiorescenze simili a pannocchie pendule, gialle di aspetto lanoso, lunghe fino a due metri. mostri. “Capricci delle proteine. unicorni. Vedi ad esempio il narvalo e quel suo dente”.

 

L’opera al Nero Sull’Alchimia e Sulla Conoscenza arcana

Gian Ruggero Manzoni, 1983

A Sergio monari
Come chiamarlo?
lista – lista all’umiliato!
e xères o molti gli altri,
ma il caso passa a onde)
la stesa a coppe sotto il cielo
e bianco – e la pietra smalva
lo spiovo, il rosso
in mota
così cuce
spoglie che vanno ai davanzali
e passarli uno a uno
cresce nome al vivaio
da ebbro (quell’ attimo di scambio
quei sobborghi in ombra:
nove al mattino
conferma il sapere precedente
è vero
ma solo in quel campo
io posso
tra sgomento e stupore
il tulipano nero.

Monsieur le Vivisecteur

Marisa Vescovo, 1983

Scrive Blanchot: “il disastro è il tempo in cui non si può mettere in gioco, attraverso il desiderio, l’astuzia o la violenza, la vita che si cerca”. Certo lo “scenario” che abbiamo innanzi è quello in cui tutto si è compiuto: la storia, il tempo, la vita presente, tutto è crollato, diventando una serie ininterrotta di cumuli di frantumi. La crisi, profetizzata e attesa, di cui continua a parlare, è già passata, dissolta nel caos del mondo in cui era nata: ora in palcoscenico sta entrando il dopo. e’ questo dopo che chiede udienza, che ripropone un’esperienza del linguaggio, un’esperienza di conoscenza, appunto, un paesaggio del disastro, un paesaggio di rovine. a queste rovine, alle immagini del disastro, gli artisti più avvertiti oppongono un sapere della sopravvivenza che non vuole più attendere nulla, anzi tende già a lavorare tra queste macerie, individuando uno spazio di trasformazione, una serie di eventi che accadono in un tempo che non si affida confidente all’avvenire, né si ritira del tutto nel passato, così come era per il famoso “angelo di benjamin”. oggi ognuno di noi si sente un “anacronismo”, un disguido temporale rispetto agli eventi che ci circondano e oltrepassano. Sentiamo di essere una combinazione provvisoria di elementi eterogenei, un’espressione della pluralità dei modelli della nostra esistenza “politeista” – ricompaiono le storie degli Dei e delle Dee, potenze – afferma miller – che guidano e danno una forma ai componenti sociali, intellettuali, personalisono questi paradigmi che ci permettono di spiegare quei molteplici aspetti della realtà psichica e concreta che altrimenti rimarrebbero anarchici, sconnessi, nevrotici. e ciò riguarda ugualmente il corso del tempo e della storia, nondimeno riguarda gli ordini del giorno impartiti dall’attualità. in questo presente ci sembra spesso di essere contemporaneamente epigoni e pionieri, di amare in un mondo ancor di “ieri”, di agire e calcolare con una logica del domani e viceversa.

Non ci sentiamo mai a casa: qualcosa di noi non lo è più, qualcosa non lo è ancora, e ognuno, spesso, si sente più vecchio o più giovane di ciò che gli succede intorno. il cerchio dell’orizzonte e dell’occhio non si danno più come tali. il cerchio entro il quale pensavamo di sostare tranquilli, si è infranto, e questo coincide ora col tradimento del tempo informatico, del tempo della mera ripetizione, col tempo dei “replicanti”. la regolazione del tempo, per alcuni artisti, si sposta di piano, si apre a fratture e nuovi spiragli. gli artisti vorrebbero gettarsi in questo varco, che però non è ancora uno spazio di libertà, bensì è il terreno ombroso di un nuovo dominio, di cui è l’armonia dei contrari, e nei contrari. in questa zona di ombra il pensiero si aggira come in una oscura foresta, attento a cogliere i fruscii e le ombre. l’arte e la poesia corteggiano oggi questo mondo che garantisce la sonorità della parola, la vivezza significante dell’immagine. Siamo infatti proiettati dentro un processo di trasformazione e di metamorfosi, di cui l’arte coglie amorosamente un segmento in cui cerca di intravvedere la forma che deve venire.
La scultura, in terracotta e marmo, di Sergio Monari, con i suoi torsi stesi, o fallicamente eretti, esclude volontariamente il volto, le mani, gli arti, quindi una possibile intersezione della realtà dei fatti e la loro verità indicibile. La traiettoria che l’artista ha messo in atto per cogliere questa sintesi di presenza/assenza, di rinvio all’idea mitologica di metarmososi-mutazione di alcune parti dei corpi, è sostanziata da una teologia narrativa che rappresenta una delle vie per vivere l’astrattezza della vita e delle sue storie, concepite immaginalmente come sogni e patologia dell’io. il corpo-oggetto in terra rossa, con i suoi inserti-inserzioni di marmo bianco (esplicita è la memoria dei monumenti bizantini della vicina Ravenna, intesi come “testo visivo”), diventa un “segno” significativo, che ha la capacità di rispecchiare il reale, ma anche diventare metafora immaginale. Categorie linguistiche potenziate sino ad un limite inesplorato, capaci di assorbire in sé una temporalità reversibile, che regredisce ed avanza. Come ha detto Aristotele nella “Poetica” il modello del dire è il mytos, in cui coesistono più traiettorie espressive, in cui si rivela un mondo che altrimenti sarebbe invisibile. La “citazione” (penso a opera come: Le rovine circolari, Il dono di Manzoni, Il vuoto è il tuo volto) si dà semplicemente come “traccia mnestica”, mentre, il disegno-riflesso riflette in maniera naturale, nello specchio dell’enigma, il proprio inafferrabile movimento spiraliforme, il “prototipo-archetipo” che in esso è racchiuso, come un nocciolo potenzialmente pronto a germogliare, proteso verso l’espressione, verso i labirinti mobili della conoscenza, offerti poi, rinnovati al pensiero contemporaneo.

Questi torsi nel momento che esibiscono i loro processi di amputazione, di metamorfosi, si condensano in allegorie di complessi, atteggiamenti, morali e psichici, che rimandano ad un’alchimia che continua a prodursi nell’atto creativo come patologizzazione. Vedere un braccio che assume la forma di una pinna di pesce, un ventre-antropomorfo, una spalla-paesaggio e un ginocchio-labirinto, ci riporta all’idea dell’uomo-camaleonte, o Proteo, che si trasforma in tutto ciò che è “diverso”, impersona tanti io, ogni gesto, o particolare, muta e varia a seconda delle occasioni, come i vapori di mercurio, esibendo modi e caratteri di ciascuno di noi, raccontandoci tutte le fedi, tutte le inclinazioni, tutti gli stati d’animo. Ci sembra di intravvedere, in queste scultura di Monari, l’idea del “meraviglioso” pliniano, perciò un’indagine portata in quelle zone di confine da cui emergono le avvisaglie dell’ibrido, del polimorfo, della natura che si sfrena nei suoi giochi creativi, favoriti e attizzati dall’elemento igneo che cuoce il materiale. Siccome queste deviazioni, queste anomalie linguistiche e psichiche, si manifestano al centro – cioè nella zona del civilizzato – si rivelano a noi come portenti, diversità di un sogno ammonitore, che interrompe, secondo precise motivazioni, le trame fluide delle cose e degli eventi.

Questo spazio fisiologico-panteista, da leggere come spazio sperimentale aperto della notte, ci riporta a un Monari da guardare nelle vesti di un “monsieur le vivisecteur“, che si trova, sulla scorta di una tradizione platonizzante, a evidenziare le direzioni, nel primato della visione, di un movimento “erotico”, che fluisce dall’esterno all’interno, ma anche viceversa, mostrando qualcosa di diverso di ciò che gli oggetti rappresentano, vale a dire il misterioso demonismo delle forme plastiche. la vivisezione, metafora musiliana, ha come possibilità estrema quella di rivolgersi contro lo stesso vivisettore, e se essa riguarda in fondo le anime, riguarda anche l’anima dell’autore. C’è in queste sculture la capacità di aderire solidamente alla tradizione e al presente in maniera complice, camaleontica, ambigua, duttile. Esse possiedono quella forza illusionistica che consente di entrare là dove nessuna soluzione, o scioglimento, si farebbe strada nell’intelletto comune, essendo essa sia una struttura analogica che uno schema antropologico radicale, la cui illuminazione consente l’analisi di ampi spazi dell’immaginario collettivo.
Assistiamo ad un processo ermeneutico che ha un fine: il viaggio verso-il-centro e poi il viaggio-di-ritorno di Teseo, simbolo della riemersione alla luce, nel presente della vita.

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