Marisa Vescovo, Enzo Melandri
La scultura di Sergio Monari, storia di una discesa agli inferi, 1984
Marisa Vescovo
E’ certo che quando una immagine emerge con forza dal nostro orizzonte culturale, ciò sta a significare che siamo in mezzo ad un processo storico di mutamento, all’interno del quale ciò che riteniamo essere la nostra esperienza del mondo, cammina verso altri spazi, e questo processo di metamorfosi non riguarda soltanto il pensiero, o il profilo di un “nuovo soggetto”, o il borderò di un sapere critico zeppo di conflitti e di differenze, riguarda anche le strategie operative e conoscitive soprattutto degli artisti, e poi di noi tutti.
La ragione risulta oggi percorsa da trasalimenti, da percorrimenti, che vanno verso una conoscenza più diretta, verso cortocircuiti che l’operatore sente di non poter più riconoscere al reale, al razionale, collocandosi così in un attimo di ripensamento generale delle condizioni in cui siamo chiamati a vivere. Infatti Sergio Monari, calato ecletticamente nella contemporaneità, con le sue sculture in bronzo patinato verde, o in creta rossa o grigiocilestrine, non cerca un ordinato disporsi di tempi, né una teoria di personaggi, non più eventi significativi, che configurino una relazione con la realtà, si muove invece verso opere che si “fanno” in virtù di piccoli ma decisivi mutamenti. Quasi scontrosamente. Pertanto il nostro desiderio di penetrarle, di capirle, diventa tanto più urgente e determinato. innanzi tutto bisogna dire che si tratta di una pratica di scultura che non si pone più in nessuno dei luoghi dove prima la scultura soleva darci appuntamento. la ricerca diventa dunque esclusiva, radi- cale, perché siamo obbligati ad apprendere il segreto delle sue origini: il punto vivo, pulsante, dove è dapprima l’evento mentale, che segna l’inizio della creazione, e poi la multi temporalità della psiche che viene ricondotta ad immagine tridimensionale, in cui si riconosce un “sopra” di storia che si costruisce, e un “sotto” di stratificazioni che hanno la durezza del sommerso e del rimosso.
Si inizia la discesa agli “inferi”. Saper leggere è parte di questa avventura di ritrovamento. Ritrovamento che è un andare verso quel luogo in cui l’idea e la materia si congiungono col proprio creatore, e la “statua” che ne nasce, nuovo genere di demone, è legata più o meno esplicitamente, al simbolismo e alle ossessioni sessuali nascenti dai miti dell’inconscio collettivo, cosicché il “metteur en scéne” impegna il suo Frankenstein nel corpo a corpo della sua nascita. Si tratti di un Dioniso dormiente, con disegnato a tergo in lapislazzolo un apollo (da Galliani) – che rappresenta nella nostra cultura il modello della vita indistruttibile, proprio perché le differenti versioni del suo mito ce lo mostrano affrontare la morte, averne ragione, anche quando è straziato dai titani – si tratti di un giovane atleta – dio dal volto ironicamente distante, ora sfottente, ora perplesso, intento a fissare i fiori di carne che nascono dal suo corpo, sia un giovane Narciso malato di ellenismo, che si morde la spalla nella metafora circolare dell’’uroboros, sia un Proteo, dai mille volti, tutti stanno ad indicare che l’ordine è un’imposizione mortifera, mentre il disordine dionisiaco, integrando e facendo spazio ad ogni cosa, è garante di un principio vitale dinamico.
Il pluralismo degli “dei”, immagine esemplare della molteplicità del “moderno”, è un modo ulteriore di designare una trascendenza immanente, che ingloba la parte buia, l’istante oscuro, la ratio, la follia, la malattia, il logico che rimanda al non logico. Si può distintamente sentire – se riusciamo ad uscire dalla “norma”, dai codici metafisici, che demarcano la separazione fra mente e corpo, fra idea ed esperienza – la fascinazione lenta, ma inesorabile, di questi sguardi muti, vuoti, che indicano la lontananza delle cose e la vicinanza delle frontiere del “possibile”, mentre i corpi, pulsanti di vita, indicano un momento di metamorfosi, di mutamento, l’attesa di un brivido che emerge tanto dal fondo opaco della memoria quanto dalla natura: il corpo e l’anima, la loro “mescolanza”. C’è in questa scultura qual- cosa di arcaico che finisce, mentre qualcosa di “nuovo” si affaccia sotto il manto del mito che, come pensava Nietzsche, è qui “un’immagine concentrata del mondo”, “l’abbreviazione dell’apparenza”. il “nuovo” si presenta allora attraverso una dimensione tragica che porta verso l’emergenza delle cose che si “trasfigurano”. L’idea di metamorfosi, che la materia veicola, per via della malattia della carne, o di un gesto, sta tra la vita e il suo flusso, tra la statua e la sua gelida immobilità. tra questi estremi si tende la Storia che si muove coi suoi movimenti a spirale. Lo spettatore si trova dunque spaesato di fronte alla superficie trasparente del linguaggio, in cui esterno ed interno si compenetrano e si fondono, mantenendo tuttavia, come il vetro, un diaframma che divide una distanza “segnata”, ma non invalicabile.
Monari dunque non ricorre mai ad un’emozione omogeneizzante, ma trasforma magari attraverso le rapine sistemi di pensiero e di forme in un’identità. Ciò non può avvenire se non rivolgendosi al mondo dell’inconscio, operando degli strappi del tessuto del procedere logico, l’artista cerca un uso produttivo di quella particolare emozione che normalmente coinvolge chi sterra nel passato, nell’archeologia, a caccia della sua “arca perduta”. viene da pensare che saggezza e follia sono intrecciate alle origini della Storia, un grembo dove è necessario inabissarsi a cercare le fonti dei nostri comportamenti.
L’artista in questione non fa nulla per assorbire o dissimulare queste basilari condizioni di sdoppiamento, ma nel dramma che vive nel dividere il già conosciuto dall’incognito, o dal nuovo, la finzione e la ragione si disvelano pienamente e compatte. Senza alcun dubbio lo scultore, più del pittore, costruisce il proprio mondo materiale rovesciato, cioè da ricercare nel sotterraneo, un mondo “altro” rispetto a quello dove egli vive, che appare incessantemente sottoposto ad un processo ordinatore, mentre quello del suo sottosuolo è segmentato e generatore di forme polimorfe. Monari sa perfettamente di operare in un’epoca senza Padre, senza il suo nome e la sua legge, e in questa assenza tutta la sua geografia familiare dei sessi risulta sconvolta. l’ombra della trasgressione incestuosa non si allunga più ad oscurare i rapporti fra padri e figli, ma tutto si consuma con il calarsi nel grembo della grande madre, non alla ricerca di una perduta infanzia, non per ribadire, ma per verificare, per un momento, una congiunzione interiore, profonda, torrida, con la madre, per cercare in questo affondo le proprie capacità di superare le costruzioni di superficie, e aprirsi ad un presente riconquistato. Ma anche sulla superficie qualcosa si muove: è una sensazione di separazione, di distanza, e tuttavia una sensazione che nella sua solenne impenetrabilità mi costringe a sé con la forza di una presa implacabile. Queste sculture, strette in se stesse circolarmente, come una vergine narcisista, al primo sguardo emanano un senso di distanza arcaica: che è un riverbero della loro impenetrabilità. Queste creature androgine, demoni bisessuali, narcisi che hanno in sé la bellezza del corpo e la fascinazione della morte, sono sciolti da ogni legame con ciò che io sarei tentata di chiamare realtà, e si presentano ribelli ad ogni cortesia nei confronti di chi guarda, perché essi vivono anche in virtù della loro autosufficienza, offrono però, ad un ripensamento, l’appiglio di una storia. mi sembra evidente che l’idea di estraneità – “tutto viene da più lontano di noi” – congiunta al darsi in solitudine della creazione, genera domande non destinate a rimanere inevase, ma anche difficilmente conciliabili con l’estraneità, le stranezze di una vita. Ci sono dunque eventi, su cui non possiamo pronunciarci e ci rimangono rappresi addosso esterni ed inconoscibili. l’esteriorità è però l’ossessione dell’oggi, ciò che ci minaccia, ciò che provoca in noi inquietudine e nevrosi. Ma il punto chiaro, che contrariamente all’apparenza, contraddistingue questo nuovo scenario (che tiene presenti i moduli legati ai temi dell’elettronica e dell’informatica), è che esso sembra essere intriso di una speranza di fondo, che permette ad una contemporaneità in stato di mutazione di portare in “scena” delle emergenze artistiche, e un sapere mobile, all’interno dei quali la contrattazione è continua.
Faenza, 1984
Enzo Melandri
Si danno nella storia incontri e scontri di civiltà, confronti d’armi, di cultura, di modi di vita nelle sconfinate dimensioni dello spazio e del tempo. talvolta una medesima cultura si ritrova allo specchio del proprio passato: la renaissance, dice Toynbee, è l’incontro di una civiltà con se stessa, nel tempo, anche se solo geneticamente si può dire che è la stessa. Quasi sempre in ogni effettiva renaissance la melée è confusa, in questi scontri nel tempo si comparano costellazioni di elementi d’origine disparata. Nella recente produzione di Sergio Monari spiccano due motivi, di rilievo anche per un semplice spettatore poco addentro negli arcani della fabbrica. uno, il richiamo sempre meno pretestuale al classico; l’altro, il coinvolgimento confabulatorio nella provocazione di un racconto. tuttavia in precedenza la presenza inquietante della musa anticasi manifestava, più alla vista che al tatto, nella rimembranza di un’erma ridotta in sembiante mutilo e allusivo. Ciò induceva quasi costrittivamente l’immaginazione sul terreno non poco frequentato dell’allegoria mitologica, morale d’una favola destinata al presente col senso atrabiliare del discorso impaludato sull’adesso e qui.
Di soluzione spesso tutt’altro che ovvia, la pregressione degli antichi miti alla contemporanea quotidianità rischiava per l’appunto di restare un’operazione in gran parte discorsiva, consapevole, dissolvente dell’impatto dei sensi e della memoria non letteraria del corpo. Ora il confronto si affina, l’allegoria si inverte nel simbolo. Al corpo pieno, al suo essere naturalmente identità e storia, è affidata per intero l’occasione del ricordo. Al di là della ricostruzione storica, monumentale e antiquaria, di cui occorrerà anzitutto avvalersi, con perspicacia, per affrancare a memoria dal peso di troppi ricordi, la riscoperta del classico procede insieme con la ricerca di una nuova misura critica. Il sogno di tutte le avanguardie, la liberazione dal passato, pare non potersi realizzare se non attraverso la liberazione di quei momenti di futuro che vi sono rimasti incistati, superati ma non dissolti dagli eventi. Nel secondo rinascimento dell’antico, quello per intenderci romantico, archeologico e filellenico, Winckelmann ritrovava l’essenza del classico nella tranquilla grandezza e nobile figura dei suoi stilemi. Contraddiceva non poco a questi canoni della bellezza che allora si diceva apollinea la riscoperta del gruppo del laocoonte, così scomposto e patetico, carico di drammaticità. In proposito intervenne anche lessing, dando inizio senza volerlo a quel movimento che nel pieno del suo vigore sarebbe stato poi l’antitesi del classicismo.
Nel Laocoonte dunque lessing predisponeva la sua celebre distinzione tra le arti istantanee o figurative, come la scultura, la pittura e l’architettura, le quali prescindono dalla dimensione temporale, e quelle che, come il dramma, la poesia e la musica, hanno un significato intrinsecamente diacronico e quindi trovano nella rappresentazione della successione un momento essenziale della loro creazione artistica. L’intento di lessing, abbastanza intempestivo, era quello di attrarre anche le arti figurative entro la spettanza d’una interpretazione quanto meno epica, non istantanea ma narrativa delle loro opere: di cui l’occasione che in merito offriva il Laocoonte, non di parlare di movimenti esagitati e di forme non compatte, ma di riempire l’attesa di chi si dispone a vedere in sequenza un fatto a lui già noto altrimenti, e che si svolge nel tempo. Ma l’epoca romantica decretò che del figurativo non doveva esserci lettura, bensì visione sinottica, simultanea, formale; e mai periodo fu più cieco, letteralmente, al classico che la congiuntura del suo secondo rinascimento. Nel primo rinascimento era successo l’esatto contrario.
Nel bel mezzo dell’imitazione anche pedissequa dell’arte figurativa antica, il tentativo di richiamare in musica le melopee e i cori della tragedia greca produsse l’esito non premeditato del melodramma moderno. Monteverdi ebbe l’ardire di trarne le doverose conseguenze. Nel terzo (e abortivo) rinascimento lo stesso compito di risalire alle origini del dramma fu affidato (da Nietzsche) al vate di bayreuth. al mito nibelungico, d’incerta lettura e di ancor più cavillosa, confusa e contraddittoria interpretazione da parte dei contemporanei, venne affidato il compito si sostituire l’antica mitologia; dal nuovo teatro, dove s’univano dramma, canto, scenografia e poesia, dipendevano le sorti della rivoluzione musicale risonante e dissonante nel golfo mistico. In perfetta antitesi, tutto ciò sortì l’effetto rovesciato. Non vi fu rinascita dell’antico, né delle sagre più o meno nordiche, scandinave o germaniche. Ma la tetralogia dell’Anello del Nibelungo è una prestazione titanica e l’opera di Wagner scorre, non troppo a suo malgrado, nell’alveo della tradizione musicale e melodrammatica dell’occidente. Del terzo rinascimento è rimasta, come acquisizione indelebile, la mal fondata e anzi insostenibile divisione tra l’apollineo e il dionisiaco. Perché, si badi bene, apollo è il dio dell’inconscio che manda i sogni e le epidemie, che tra- sforma in malattie le colpe e nel delirio realizza allucinatoriamente il desiderio.
Al quarto rinascimento (non so se ci sarà) potremmo però intanto cominciare vantaggiosamente a predisporci pensando in termini di restituzione decostruttiva, da cima a fondo antiquaria, ma religiosamente irriverente e subliminale, forse sublime, dell’antico di questo mostro che resterà classico fin tanto che, incompreso, non sarà ricompreso nel suo senso arcano di enigma, di mistero non ricostruibile ma non per questo insondabile.