Eroica viaggiatrice ferita, Milano 1985
Maurizio Cucchi
Bei corpi, bei capelli… bei corpi opportunamente mutilati da una finzione di tempo, da una finzione di storia. La bellezza obbligatoria si propone irritante, ed è giustamente punita. Ma perché arriverà ancora fin qui, citazione di citazione, invadente frutto di una memoria talmente diffusa o democratica da risultare inesistente? ed è poi lei che viene, o è il solito artista che se la va a cercare, che se la coccola e la bacia, se la rispolvera dal magazzino o dal giardino, le infligge qualche amorevole tortura per farla sembrare, anche, eroica viaggiatrice ferita? Certo quella purezza di un volto giovane maschile è astratta quanto dolcemente mossa e la sua materia, la sua fredda pasta, non la blocca affatto, ma ce la offre come apparizione e sogno pronto a scappare a un soffio. Senonché colui che l’ha evocata la inchioda come può, le dà provvisoria dimora e l’ombra che quella figura proiettata sul bianco della parete è come l’idea nella mente, che qui, su questo rozzo piedistallo di tortura, si è fatta corpo. l’adolescente, dunque, non è un fantasma, perché fa ombra… ma anche la sua ombra-idea, non ci vuol molto a capirlo, è pronta a sparire facilmente. Che ci resta, allora, solo quegli occhi socchiusi e quella bocca sottile e forte; e quei monconi infelici. e resta quel vetro vibrante che lo tiene su, tra sublime e ironia, roba informe perduta a ogni possibilità di forme, protesi miserabile, ortopedia beffarda. Chissà, forse s’inventano una storia, un romanzo che ne giustifichi la presenza, questi relitti torturati, questi spaccati reperti di magazzino e storia, di una subdola mente che vagheggia armonie di forme e le riduce a sinistri oggetti già violati. Sinuoso l’accennato movimento delle gambe, gentile il sesso. Ma la spalla lacerata dallo spuntone, quella carne e pelle di terracotta trapassate senza una traccia di sangue, sono la trafittura del personaggio, sono il suo male, o sono il bel tempo e l’accidia dell’artista che spara frecce all’impazzata su un corpo nobile che sogna da millenni?
Medium bizzarro e perdigiorno inquieto evoca armonie lontane e poi le sconvolge e nega. Busto di donna supina da maneggiare, torso scolpito bello di donna o manichino di sarto, che differenza fa? Sottratto a un polveroso solaio di inutilizzabili ruderi, rientra passivo in gioco su una più vasta scena di un presente spettacolo. Ha avuto forse, nel breve tragitto, un attimo di ritrovata gloria, vita. Poi l’ombra l’ha di nuovo inghiottita, l’ha succhiata di già fino al bacino e le sue lame, dentro, sono rispuntate dalle spalle, dal collo, lasciando un ultimo respiro nel petto. Qualcun altro si esercito, prova forza, si sente artefice, è colto nei suoi movimenti. Crea nella materia e s’accorge che è egli stesso la materia che modella. Le mani gli si sfanno orrendamente nella sua stessa terra, il volto, gli occhi diventano ciò che sono: inanimata materia informe. eppure non cessa di protendersi, di spengersi, di dare e cercare vita. Ma è vita eterna-effimera, è corpo che inesorabilmente si sfigura, si traduce in altro corpo, si allontana da sé un istante dopo essersi finalmente posseduto l’idea attraversa la materia, la trapassa come una velocissima imprendibile freccina luminosa; poi va a posarsi altrove; o forse solamente a spegnersi più in là. Ed ecco già risucchiato nel passato tutto ciò che per un istante o per una vita – che è lo stesso – ha avuto il beneficio dell’anima.
L’artefice vero, allora, torna a guardare i propri oggetti forse se ne compiace; li accarezza, li sposta, li mette in fila, li mette in mostra, dice: “Sono come voi; anzi, io sono voi”. Poi qualcuno verrà a imballarli, o forse a gettarli via, o a riseppellirli in un altro magazzino. Purché l’idea e il ricordo, pensa l’artefice, possano continuare a esistere; non so dove, forse soltanto nell’aria, che qualcuno, di certo, tornerà a respirare.