Monari o del presente, Roma 1988
Fulvio Abbate
Siamo sicuri che Sergio Monari sia scultore nell’accezione iniziale che diamo a questo termine? E ancora: si può connotare il suo lavoro nel mondo della scultura, pensando che il volume basti a spiegarne il moto espressivo?
Monari riconduce l’attenzione a una forma che, primariamente, racconta l’esserci del Mondo; e si tratta del Mondo di tutti. Mostra cose che aspirano, in prima istanza, ad essere assimilate in un destino poetico; cose che attendono una misura ideale: il racconto della storia in una narrazione frammentaria ed epifanica. Alcuni di questi oggetti li ha sottratti dalle tolette dei ciclopi, altri (come le invenzioni) servono a scacciare demoni invisibili, altri ancora servono l’affabulazione arcaica: c’è un “Trono”, ma non sapremo se chi lo usa ha la barba o la corona. Nel lavoro di Monari c’è evocazione senza nostalgia. Ogni cosa è come gli oggetti, soltanto reale. Monari, a mio parere, non crede ai feticci, non prepara la stele né gli obelischi; è distante dal desiderio di onorare la “maestà della morte”, non vuole neppure, per le sue opere, il silenzio che richiedono le ceramiche antiche o i monili etruschi nell’abisso trasparente delle teche dei musei; piuttosto suggerisce un funzionalismo magico che liberi le cose dal tempo. Non torna indietro a fare incetta di punte, bulini e zanne, non cerca lucerne, non guarda neppure i tesori. Non scava. Il suo fare risponde al presente di un pensiero poetico che ha scelto la narrazione allegorica. Si è vero, Monari pensa significanti che sopra ogni cosa riconducano all’arcaicità ma si tratta di un’occasione mito-poietica: la stessa che ha calamitato gli artisti delle avanguardie storiche, sino a Pino Pascali che tagliava il mare con le forbici.
Monari sottolinea che ogni cosa non appare al dominio della Moda, e ci porta dove non ha valore chiedersi quanto siano corte le gonne, e se il gioco della palla è stato già scoperto. Pur nel volume irregolare delle tecnologie primordiali i lavori di Monari appartengono al presente; per ottenere quest’esito non basta il prelievo formale di uno stilema, non è sufficiente l’innamoramento e lo studio delle forme arcaiche o arcaicizzanti, occorre invece ridefinire come nuovo ogni segno. Attraverso il controllo costruttivo di ciascuna forma (in quanto anatomia) Monari riduce tutto alle proporzioni incommensurabili dell’eros, ogni forma costruita (o giocata? o fatta? o traslata?) è mimetica verso il corpo che è il noto, il conosciuto, il quotidiano ininterrotto. Possiamo sillabare le forme del mondo e dell’umano e magari coniugarle in un presente poetico: ci ricordiamo che il massimo contributo alla scultura di questo secolo viene da Brancusi che dava al sonno e al- l’incanto l’essenza e le movenze immobili dell’uccello, del gallo, del pesce, dell’inizio del mondo; trasformando – come gli disse il doganiere Rousseau – “l’antico in moderno”. Se le opere di Sergio Monari vengono da questo corredo poetico, certamente dimenticano le tombe dell’anacronismo. Non ha neppure bisogno di scendere nell’Ade della storia dell’arte, né del conto alla rovescia di un passato senza ritorno.